Una estrema
SOLITUDINE

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ANTICIPAZIONI
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Mercoledì
11 Aprile

Corpo e anima

di Ildico Enyedi
(Ungheria, 2017)

Orso d’Oro Festival di Berlino 2017
European Film Award 2018 migliore attrice


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In un macello di Budapest viene assunta una nuova addetta al controllo di qualità. Il responsabile del mattatoio è subito incuriosito dall'atteggiamento riservato e meticoloso della donna, ma i primi fugaci ammiccamenti tra i due non portano a nulla. Complice una indagine interna, in seguito alla quale dirigenti e dipendenti vengono sottoposti a un test psicologico, i due scoprono però di condividere un sogno ricorrente, due cervi che si annusano e si sfiorano sperduti nell'incanto di un bosco innevato. La cosa, anziché spiazzarli, li scuote e li avvicina. Entrambi sono deprivati di qualcosa: lui ha il braccio sinistro paralizzato, lei è rimasta murata in uno stadio infantile, tanto da non conoscere il sesso e frequentare ancora uno psicologo per minori. Lui è un uomo malinconico, con un divorzio alle spalle che ne ha spento ogni passione. Lei è apatica e vagamente autistica. Il sogno comune, però, li invita ad aprirsi, a cercarsi. Due anime perse nella solitudine, così, si trovano e si ritrovano, con il film che nella seconda parte diventa tenero e commovente tanto i due si abbandonano ai disegni che il sogno condiviso riserva loro. L'inizio, al contrario, può urtare per l'estremo naturalismo; mostra vacche avviate al mattatoio che vengono uccise, decapitate e macellate, senza alcun filtro (stando ai titoli di coda, si tratta di scene girate in presa diretta in un reale mattatoio), il che è funzionale al film. Che i corpi abbiano un’anima, d’altronde, lo si coglie anche dallo sguardo delle povere vacche destinate al macello.

Mercoledì
18 Aprile

Loveless

di Andrej Zvyagintsev
(Russia, 2017)

Premio della Giuria Festival di Cannes 2017

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Una storia gelida e senza speranza su di uno sfondo gelido e senza speranza. Sta tutto qui il film di Andrei Zvyangintsev, regista russo di rango già autore dei notevoli Il ritorno (2003) e Leviathan (2016). Siamo a Mosca, ai giorni d'oggi. Boris e Zhenya sono in procinto di divorziare. Carichi di rancori, frustrazioni e insofferenza reciproca, sono entrambi già legati a partner diversi e non vedono l'ora di vendere la casa comune per lasciarsi tutto alle spalle. Hanno però un problema, il figlio dodicenne Alyosha, di cui non sanno letteralmente che farsene. Mai desiderato, poco amato e ora decisamente di troppo, il giovane, quasi ad esaudire i desideri dei genitori, esce di casa e non vi fa più ritorno. Il film è il racconto di ciò che accade dopo, del composto fastidio dei due genitori e della macchina sociale che si mette in moto per ritrovare il giovane, una macchina che, nonostante la studiata efficienza, come i genitori di Alyosha non trasmette mai partecipazione e calore. Nonostante a livello visivo abusi di simbologie un po' scontate - gelidi paesaggi invernali, nudo cemento, grigi cieli opprimenti, desolati campi lunghi in cui le persone si perdono - il film ha una sua forza. Il pianto scomposto dei due genitori alla fine fa da contraltare a quello di Alyosha all'inizio, ma le immagini successive mostrano che nulla è cambiato e, nell'epilogo, la scritta su di una maglietta battezza luoghi e stati d'animo come quelli della Russia di oggi


Mercoledì
2 Maggio

Oltre la notte

di Fathi Akin
(Germania, 2017)

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Katja (Diane Kruger) non ha avuto una vita facile. Si è sposata con un uomo che, quando è convolata a nozze, era in galera per spaccio. Lei, d'altronde, era una tossica, consumatrice accanita. Poi, tutto è andato a posto: un lavoro, una bella casa, un figlio da amare e da crescere. La sua vita, però, ripiomba nell'incubo più cupo quando il marito e il figlio muoiono dilaniati da una bomba a causa di un attentato. I responsabili sono due gio-vani coniugi neonazisti che, processati, se la cavano. La donna, consumata da una estrema solitudine, è tentata dal farsi giustizia da sola, ma esita. L'epilogo è straziante, senza spe-ranza. Diretto da Fatih Akin, celebrato autore de La sposa turca (2004), Soul Kitchen (2009) e del più recente Il padre (2014), il film è suddiviso in tre atti: la famiglia (il lutto, con l'angoscia della donna che viene resa in maniera secca), la giustizia (il processo, con la donna che viene umiliaa dagli avvocati della difesa) e il mare (l'epilogo, in Grecia, con la donna sempre più sola dinanzi al dilemma di una vita che non ha più senso). Diane Kru-ger è viscerale e generosa nel dare corpo alla sua eroina tragica, moglie e madre ferita dal trauma della morte e della perdita, costretta in un universo di sorda solitudine in cui vivere non ha più senso e il dolore è l'unica voce a cui è possibile dare ascolto.

Mercoledì
9 Maggio

Tonya

di Craig Gillespie
(USA, 2017)

Golden Globe e Premio Oscar 2018
migliore attrice non protagonista


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Tonya (Margot Robbie) non ha avuto un'infanzia facile e le cose non le sono andate meglio crescendo. Eppure, sebbene sofferente d'asma, è diventata una pattinatrice di prima grandezza, la seconda al mondo e la prima in America ad eseguire correttamente in una competizione ufficiale un triplo axel. Tonya è Tonya Harding, pattinatrice americana balzata agli onori delle cronache nel 1994 con l'accusa di avere tentato di precludere alla collega Nancy Kerrigan la partecipazioni alle Olimpiadi invernali di Lilllehamer facendogli rompere un ginocchio. Il film ne racconta la storia indugiando sia sul suo drammatico privato, segnato da una madre e da un marito che sembrano usciti da un saggio sulla stupidità umana, sia sui suoi rapporti con i giudici di gara, da cui fu sempre poco amata, poiché non la ritenevano all'altezza di un modello da proporre. Il risultato è un film formidabile, originalissimo, che lo spettatore ricorderà più per la figura della madre, interpretata da una straordinaria Allison Janney, che non per la stessa protagonista. Utilizzando diverse tecniche narrative - dall'uso de mockumentary, qui presente sotto forma di finte interviste ai protagonisti, in realtà interpretate dagli attori, alle sequenze nelle quali i protagonisti si rivolgono direttamente allo spettatore, guardando dritti nella cinepresa - , il regista riesce a dar vita ad un film che si discosta da un semplice biopic.

Mercoledì
16 Maggio

Un sogno chiamato
Florida


di Sean Baker
(USA, 2017)

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Siamo in Florida, in una zona degradata fatta di fast food, trash televisivo e quotidiana miseria. Qui, in uno dei coloratissimi ma squallidi motel della zona, tre ragazzini di circa sei anni, Moonie, Scooty e Jancey, vivono come se non dovessero crescere mai trasformando la realtà che li circonda in un’avventura continua in cui l’irresponsabilità di chi li ha messi al mondo diventa la loro. Le loro famiglie, in totale disarmo, scontano padri del tutto assenti e madri che campano alla giornata, senza un lavoro stabile, che bevono, fumano e, tra un lavoretto e l’altro, si prostituiscono con il figlioletto chiuso in bagno. Non sono madri snaturate, a ben vedere, perché sembra che amino i propri figli e, qualcuna, si adopera anche per tenerli lontani dai guai. Ma che madri sono, queste ? Come hanno fatto a ridursi così ? Halley, la giovane mamma di Moonie, in particolare, cammina pericolosamente lungo il confine fra legalità e crimine, fra rispetto di sé e perdita di ogni decoro. Se non fosse per Bobby (Willem Dafoe), il “manager”, cioè il supervisore del Magic Castel Hotel, probabilmente sarebbe già finita male. Bobby è un tipo semplice, che cerca di tenere insieme un po’ tutto, che non ha abdicato all'umana decenza, anche se si trova talvolta a fare la voce grossa con madri e figli per arginarne le malefatte. Un film indie che più indie non si può; Sean Baker, il regista, qui al suo secondo film, lavora bene sul contrasto fra colori vivaci ed esistenze miserabili, fra quel mondo di fantasia da favola disneyana perpetuato dall'architettura esagerata e grottesca della Florida e la realtà in cui vivono i suoi abitanti dei quartieri più poveri.

Mercoledì
30 Maggio

I misteri di
Wind River


di Taylor Sheridan
(USA, 2017)

Migliore regia “Certain Regard”
Festival di Cannes 2017


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Siamo nella riserva indiana di Wind River, luogo dimenticato da Dio sperduto nella selvaggia immensità del Wyoming. Cory (Jeremy Renner) è un ranger esperto, fortemente legato alla comunità indiana, che caccia i puma che attaccano il bestiame. Durante una di queste missioni, trova il corpo abusato ed esanime di una giovane donna amerinda. L'uomo, che tre anni prima ha perso la figlia in circostanze altrettanto brutali, riconosce la giovane e rivive il dramma che gli ha sconvolto la vita, ma quando l'agente dell'FBI inviata sul posto, una recluta di Las Vegas senza esperienza, gli chiede di aiutarla nelle indagini, non sa tirarsi indietro. La donna, che si rivelerà tosta e disposta a imparare, da sola, infatti, non saprebbe come muoversi in quel luogo ostile, piegato dalla violenza e dall'isolamento, dove l'uomo è lupo per l'uomo. Diretto da Taylor Sheridan, sceneggiatore di Sicario di Denis Villeneuve, Wind River è un film solenne, sorta di mix tra un thriller classico e un western contemporaneo, che trova nella suggestione delle ambientazioni e nella credibilità delle caratterizzazioni la cifra di quel cinema classico che sempre più raramente le produzioni a stelle e strisce sanno proporre. Raggelato nell'abbacinate deserto innevato, dove la rabbia di vivere convive con la rassegnazione, il film incrocia la solitudine di chi vive in condizioni di estremo isolamento con quella interiore di chi sopravvive al dramma di una perdita insanabile.