Tra storia
e memoria


Al tema della memoria e al suo intersecarsi con la storia il Capitol ha dedicato, nel corso degli anni, una costante attenzione. Sono state promosse rassegne tematiche, aperti spazi di approfondimento attorno alle più rilevanti ricorrenze memoriali, proposti film che hanno diviso e fatto discutere, sempre però all'interno di una cornice istituzionale che non solo si è sempre mostrata super partes ma ha altresì sempre cercato di scoraggiare la faziosità fine a se stessa. Tra tutti i film proposti, il più anomalo è forse quello che apre la presente rassegna, ossia Roma di Alfonso Cuaron. Si tratta di un film in cui, a differenza di quanto accade di solito, è più la memoria che non la storia a farla da padrone, ma è proprio qui che sta la sua originalità. Cuaron è messicano e, ritornando a girare in Messico dopo sedici anni, non se la prende con l’america dei muri di oggi, ma rievoca con delicatezza senza fine la tata che lo ha cresciuto nel Messico rampante e machista della sua infanzia. Un film raro e potente, come raramente se ne sono visti, con al centro non uno di quei grossi personaggi che hanno fatto la storia ma una umile, umilissima tata. Più consueto è invece il taglio degli altri tre film proposti, che aprono altrettanti squarci su pagine drammatiche della storia del Novecento, la vicenda della “foibe”, la Shoah, anche se questa volta non è di scena tanto lo sterminio quanto la storia di chi ha avuto un ruolo di primo piano nel pianificarlo, la dittatura in Uruguay negli anni Settanta e la persecuzione in carcere dei militanti Tupamaros. Di questi tre film, il più potente è proprio l'ultimo, che narra di tre uomini che per dodici anni tennero testa a uno spietato sistema carcerario tutto teso a vincerne la resistenza e a sfibrarne la volontà.

Mercoledì
16 Gennaio

ROMA

Chiacchierato perché ammesso in concorso al Festival di Venezia sebbene fosse prodotto da Netflix e quindi destinato al consumo in streaming e non alla sala, ha finito per vincere il Leone d’Oro, cui si è aggiunto successivamente il Golden Globe per il miglior film straniero e la migliore regia, il che di solito apre la strada agli Oscar. Siamo a Mexico City, nel 1970. Il titolo allude a un quartiere medioborghese della città, il quartiere dove il regista è nato cresciuto. Cleo è la domestica tuttofare di una famiglia benestante: accudisce marito, moglie, nonna, quattro figli e un cane. I com-piti della giovane, che è un prodigio di effi-cienza e di dolcezza, non finiscono mai. E' così stanca di spendersi per gli altri che, per svagarsi, fa finta di essere morta. In aggiunta alla sua condizione di india povera, è donna, il che la rende inferiore persino ai nullatenenti che le ronzano intorno, che aspirano alla rivoluzione ma ignorano la più elementare decenza nei confronti delle proprie donne. Era dai tempi di Y Tu Mama Tambien che Alfonso Cuaron non girava un film in Messico. Da allora, molte cose sono cambiate, ma la consacrazione del regista al gotha hollywoodiano - i due Oscar, miglior regia e migliore montaggio, vinti per Gravity nel 2014 - non ne ha cambiato il temperamento. In un bianco e nero luminoso e pastoso che mescola ricordi nostalgici e denuncia sociale, Cuaron racconta il Messico della sua infanzia, nonché il debito di riconoscenza che lui e tutti i figli della rampante borghesia messicana devono alle umili tate che li hanno cresciuti con amore.

Mercoledì
30 Gennaio


RED LAND

La storia, si sa, è grama e viziata. La scrive chi vince e, una volta che diviene vulgata, si fa fatica a emendarla. Lo sanno bene le vittime delle “foibe” e coloro che, nel corso degli anni, hanno cercato di farne riaffiorare il ricordo. Simone Cristicchi, con Magazzino 18, ci ha costruito sopra uno spettacolo teatrale fatto tutto di musica e poesia, ma l'ha pagata, con gli attivisti dei centri sociali che, come a Scandicci, hanno fatto irruzione sul palco. A ridestarne il ricordo giunge ora un film che, curiosamente, antepone un titolo inglese neutro al ben più esplicito sottotitolo italiano, quasi a far finta di niente. Lo ha diretto un italo argentino, al suo esordio dietro la macchina da presa, per narrare la storia di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana barbaramente violentata e uccisa dai partigiani titini. La sua colpa ? Essere Italiana e figlia di un dirigente locale del partito fascista. L'inizio, molto lento, allude a corpi sotterrati, poi, sul finale, la violenza deflagra. Viene in mente Hegel, che diceva che la storia, quando la si sotterra, salta fuori come un cane rabbioso. Il capobanda titino è di una ferocia assoluta e al comunista italiano vengono offerti i tratti del traditore della propria gente. Forse i titini non erano tutti così feroci e i comunisti italiani avevano più alti convincimenti, ma vi fu anche, forse, «un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo che [..] assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica», come ammise nel 2007 il presidente Napolitano sollevando aspre proteste, e come riconosce la Giornata del Ricordo istituita nel 2004.

Mercoledì
13 Febbraio


lL'UOMO

L'uomo dal cuore di ferro, il macellaio di Praga, la bestia bionda, così era denominato Reinhard Heydrich, lo spietato ufficiale nazista di cui il film narra l'irresistibile ascesa e l'altrettanto repentina caduta. Stretto collaboratore di Himmler, freddo e implacabile, Heydrich fu uno dei più crudeli gerarchi nazisti, il più alto in grado tra gli ufficiali tedeschi uccisi durante la Seconda Guerra Mondiale. Per ucciderlo, fu ordita un'ambiziosa operazione militare, denominata Operazione Anthropoid, che mobilitò un piccolo gruppo di combattenti della resistenza ceca, addestrati dagli inglesi, e guidati dal governo cecoslovacco in esilio. L'azione, compiuta da due paracadutisti, Jan Kubis e Jozef Gabcik, si risolse con il ferimento di Heydrich, ma ebbe l'esito sperato con la successiva morte di Heydrich per i postumi della ferita. Hitler, furibondo per l'uccisione di Heydrich, fece annientare il villaggio di Lidice, vicino a Praga, pretendendo che le macerie venissero disperse in modo da cancellarlo definitivamente dalla faccia della terra. In onore di Heydrich, inoltre, il piano che portò alla realizzazione dei primi campi di sterminio tedeschi venne battezzata Operazione Reinhard. Quanto agli attentatori, questi inizialmente riuscirono a trovare riparo nella cripta di una chiesa, ma alla fine vennero scoperti e, dopo una strenua resistenza, dovettero soccombere. Il romanzo di Laurent Binet a cui il film è ispirato, vincitore nel 2010 del premio Gouncort, ha il curioso titolo HHhH, acronimo del tedesco Him-mlers Hirn heit Heydrich, ovvero «il cervello di Himmler si chiama Heyndrich».

Mercoledì
27 Febbraio


UNA NOTTE

Siamo in Uruguay, nel settembre del 1973, al tempo della dittatura militare. I guerriglieri del movimento Tupamaros sono stati schiacciati e i suoi membri imprigionati. Una notte, nove di questi vengono sottratti dalle loro celle nell’ambito di una operazione militare segreta, una sorta di macabro esperimento mirante ad abbattere le loro capacità di resistenza psicologica, che durerà 12 anni. Da qui il titolo del film, che narra i 4323 giorni di detenzione di tre dei nove guerriglieri, che da quella notte fatidica verranno spostati, a rotazione, in diverse caserme sparse nel paese e assoggettati a pratiche tese a devastarne la psiche. Così, di carcere in carcere, siamo testimoni delle umiliazioni e alle coercizioni a cui vengono sottoposti, ma, e qui sta la forza del film, riusciamo anche a intuire come i tre abbiano fatto a sopravvivere a questo infame regime per dodici lunghissimi anni. Alla fine, per chi non conosce la storia recente dell’Uruguay, sarà una sorpresa apprendere i nomi dei tre detenuti di cui ha visto narrare i patemi: José “Pepe” Mujica, prima senatore e poi capo dello stato tra il 2010 e il 2015, Fernández Huidobro, nello stesso periodo ministro della difesa, Mauricio Rosencof, detto “El Ñato”, poeta, scrittore e, dal 2015, assessore alla cultura del Municipio di Montevideo. Obiettivo della messa in scena, ha spiegato il regista, è stato di immaginarci accanto ai detenuti, aggrapparci come loro a forme di resistenza e di evasione che sono tutte mentali, per dare corpo alla lotta che l'essere umano ingaggia con se stesso per non cedere dinanzi alla coercizione.